Un libro sul mio comodino
lo stesso di tanti anni fa.
Riletto con meno saggezza
ma con più pietà.
Con gli occhi di quello che ero,
che sono,
che non sono più.
Lettura.
Che preghiera non è.
Non lo era,
non lo sarà.
Da lasciare,
da finire,
da ricominciare.
Da indirizzare
a un dio minore
che tutto sommato
la sappia apprezzare
o perdonare.
Sospeso
e senza fiato,
orfano di un tuo giudizio,
riempivo i tuoi silenzi
con i fantasmi, coi sogni
dell’anima.
Fuochi inutili,
inutilmente accesi
per evitare di dissolvermi
nel vuoto del creato,
nel vasto nulla che è nulla,
forma che è (e non è) forma.
E senza piu’ distinguere
il dentro dal fuori,
piu’ libero, piu’ consapevole, piu’ triste,
mi sveglio dal mio sogno
e ti guardo
e mi guardo.
Uso ogni atomo del mio cinismo
per imbottire il mio cuscino
e guardo il futuro
e il passato
nel perfetto equilibrio
di questo istante.
In questa posa immobile,
soffia il vento
ma non cambia
il mio restare,
immemore
del mio dolore.
Fosse anche per un attimo,
mi guardo,
ti guardo,
la stessa sostanza,
la stessa sostanza dei sogni
la stessa sostanza di tutto.
Una mucca di plastica
e le righe dell’area parcheggio.
I cassoni dell’AMA
e il fulgore dello spartitraffico.
Le matasse di cavi di rete
ed il prato coperto di brina.
Il corriere e il registro di scarico,
i bidoni di olio sintetico
e il vapore dello scambiatore,
sono prove innegabili
dell’amore
di Dio.
Il bianco per il nero.
Il nero per il bianco.
Colpito da una luce artificiale,
carico di un mio male
(che sta nello sbranare
e nel far sbranare),
contemplo
il dono di vivere
senza donare
(per possedere).
Vivere
per vivere
per quanto vale
per quanto male
si possa concepire.
Autentico.
Reale.
Insensatamente,
nel freddo pungente,
trascino le mani ed i piedi:
Coreografia
(Poco convincente)
di un passo di danza,
privo di senso,
e di bellezza,
e di coerenza.
Convinto che sia
un gioco
il tempo che avanza.
E non è
(a ben vedere)
un gran bel vedere
questo gioco a sbrogliare
questo ammasso di cose da fare.
Ma questo era (se ti pare).
Quindi,
saluto e sono.
E’ ora di andare:
tu non mi cercare.
Si accettano opinioni.
Seguiranno istruzioni.
Oltre il maniglione antipanico
soffia il vento tra gli alberi
– un nespolo? un pino, un cipresso
(tra le file di macchine,
lungo la statale).
Spacca le nuvole
e sventola bandiere,
(un anemometro)
porta polveri sottili
e (a volerlo sentire)
odore del mare.
Porta nuove,
alternative,
un pensiero fugace,
al mio mutevole,
immobile,
peregrinare.
Trafitto
dal dolore del tempo,
cerco un senso
nel dono del mondo
e del rimpianto.
Invento un metodo
per essere contento e,
a volte sottraendo,
a volte incrementando,
scambio persone
per prese di tabacco
e perfeziono,
intanto,
il sonoro sibilare
del mio verso.
Di nuovo sto,
qui,
straniero di ogni posto.
La mia terra.
Rinnova, per me, la promessa
di un cielo stellato
(Altair, Deneb, Vega).
Del vento, del sogno,
del pianto
e del ricordo del pianto.
Rivendico da subito il diritto
al mio epitaffio in versi,
da me scritto,
che stia a determinare
cosa fare
con i contatti della mia rubrica
e con gli aggiornamenti del profilo
che, per forza di cose, cesseranno.
Sarò escluso da qualunque lista
senza conferma di sottoscrizione
e ben difficilmente avrò chiamate
non sollecitate
per qualche telepromozione,
e certamente non sarò in riunione.
E senza più conflitti da appianare
o vuoti da colmare
non resterà che quello,
che serva a ricordare
cosa sia,
in versi sciatti e rima sghemba,
questo mio modo di non far poesia.