Haiku

Luna nuova
vicino a Giove.
Passerà. (tutto passa).

Una mucca di plastica
e le righe dell’area parcheggio.
I cassoni dell’AMA
e il fulgore dello spartitraffico.
Le matasse di cavi di rete
ed il prato coperto di brina.

Il corriere e il registro di scarico,
i bidoni di olio sintetico
e il vapore dello scambiatore,
sono prove innegabili
dell’amore
di Dio.

Il bianco per il nero.
Il nero per il bianco.

Colpito da una luce artificiale,
carico di un mio male
(che sta nello sbranare
e nel far sbranare),
contemplo
il dono di vivere
senza donare
(per possedere).

Vivere
per vivere
per quanto vale
per quanto male
si possa concepire.

Autentico.
Reale.

Insensatamente,
nel freddo pungente,
trascino le mani ed i piedi:
Coreografia
(Poco convincente)

di un passo di danza,
privo di senso,
e di bellezza,
e di coerenza.
Convinto che sia
un gioco
il tempo che avanza.

E non è
(a ben vedere)
un gran bel vedere
questo gioco a sbrogliare
questo ammasso di cose da fare.

Ma questo era (se ti pare).

Quindi,
saluto e sono.
E’ ora di andare:
tu non mi cercare.

Si accettano opinioni.
Seguiranno istruzioni.

Oltre il maniglione antipanico
soffia il vento tra gli alberi
– un nespolo? un pino, un cipresso
(tra le file di macchine,
lungo la statale).

Spacca le nuvole
e sventola bandiere,
(un anemometro)
porta polveri sottili
e (a volerlo sentire)
odore del mare.

Porta nuove,
alternative,
un pensiero fugace,
al mio mutevole,
immobile,
peregrinare.

La concomitante scomparsa di Steve Jobs e di Dennis Ritchie mi hanno fatto riflettere su alcune questioni del mondo in cui viviamo che, tutto sommato e dopo varie titubanze, ho deciso di mettere a fattor comune coi 25 lettori di questo blog.

Chiariamo subito che questo articolo non intende minimamente giudicare il contributo alla storia dell’informatica (o, se per questo, dell’umanità) dei due personaggi in questione. In particolare, l’autore ha molto apprezzato il discorso di Jobs a Stanford ed è in grado di citarne ampi stralci a memoria, alle volte non riuscendo a soffocare una sincera commozione.

Cio’ detto, darei per scontato che tutti conoscano nel dettaglio vita e opere di Steve Jobs. Ipotizzo che sia meno nota l’attività di Ritchie.
Ritchie ha inventato il linguaggio C ed è stato uno dei principali autori di Unix.

Per una migliore comprensione di cosa significhi questo per l’informatica, i fortunati possessori di un Mac potrebbero, dopo aver preso le opportune precauzioni (per lo meno un potente ansiolitico) tentare l’intentato e lanciare un “terminale” (e’ sotto applicazioni -> utilità).
Superato lo shock di una interfaccia poco stilosa e decisamente non in tinta con la propria borsa (oltre tutto, sono davvero mortificato ma non è disponibile una cover magnetica),  li prego di prendere consapevolezza di un interessante asserto: il loro Mac Os X è nipote di Unix (e, se proprio vogliamo essere pedanti, figlio di NeXTStep).
E, peraltro, il software applicativo del loro Mac è scritto in un linguaggio che (udite, udite) si chiama Objective C (di ovvia paternità).

Interessante.

Ma l’aspetto al quale si rivolge la mia riflessione di oggi non è questo.
Unix ha partorito, come abbiamo visto, Mac Os X. Ma anche Linux e Xenix e Sun Solaris e Hp-Ux. Una intera comunità a partire dagli anni settanta ha fatto un lungo e articolato viaggio nel quale tutto (o quasi) era possibile e mille possibili varianti, mille tentativi, mille fallimenti sono stati esplorati.
Un’intera comunità che ha collaborato, interagito, litigato, ipotizzando che non esistesse UN MODO GIUSTO di fare le cose ma che ognuno potesse costruire UN MODO MIGLIORE PER SE di farle.
Una comunità, quella hacker, che ha cercato di fronte a uno strumento di chiedersi continuamente se ci fosse un modo inesplorato di utilizzarlo.
Questi modi inesplorati portano a rotture e risultati imprevisti. Risultati imprevisti che generano conoscenza… e altri risultati.

In aperto contrasto a questo, l’informatica di consumo è oggi sostanzialmente bipolare.
Da una parte la galassia Google. Libera (come in “ingresso libero”, non come in “libero pensiero”) a condizione di pensare Google, respirare Google, interagire Google, ricercare Google. E che ci spinge verso un paradigma nel quale i nostri PC diventano niente senza un server che offre loro un servizio di ricerca. Quello di Google (che determina centralmente cosa si vede, cosa non si vede, in che ordine si vede).
Dall’altra una galassia Apple che scambia una perfetta funzionalità, usabilità, interazione con l’accettazione di un paradigma di utilizzo basato sull’accettazione, oserei dire religiosa, del MODO D’USO (quello predefinito) e delle CONDIZIONI D’USO (i dispositivi lockati, il market privativo).

E, attenzione, non è un problema di tecnologia, da nerd rancorosi.
E’ una questione che determinerà la forma mentis dei nostri figli.
Quanto vogliamo che sperimentino e siano in sostanza liberi (come in “libero pensiero” non come in “ingresso libero”) dipende, anche, dalle tecnologie che pervasivamente utilizzano.
Io, per me, ci starò attento.

Trafitto
dal dolore del tempo,
cerco un senso
nel dono del mondo
e del rimpianto.

Invento un metodo
per essere contento e,
a volte sottraendo,
a volte incrementando,

scambio persone
per prese di tabacco
e perfeziono,
intanto,
il sonoro sibilare
del mio verso.

Di nuovo sto,
qui,
straniero di ogni posto.

La mia terra.

Rinnova, per me, la promessa
di un cielo stellato
(Altair, Deneb, Vega).

Del vento, del sogno,
del pianto
e del ricordo del pianto.

Rivendico da subito il diritto
al mio epitaffio in versi,
da me scritto,
che stia a determinare
cosa fare
con i contatti della mia rubrica
e con gli aggiornamenti del profilo
che, per forza di cose, cesseranno.

Sarò escluso da qualunque lista
senza conferma di sottoscrizione
e ben difficilmente avrò chiamate
non sollecitate
per qualche telepromozione,
e certamente non sarò in riunione.

E senza più conflitti da appianare
o vuoti da colmare
non resterà che quello,
che serva a ricordare
cosa sia,
in versi sciatti e rima sghemba,
questo mio modo di non far poesia.

Cominciamo dall’inizio (e da dove, sennò?).

Qualche tempo fa ho adottato GTD come tecnica di gestione del tempo (e anche per altre cose più sottilmente esistenziali quali la gestione della procrastinazione).

E’ stato solo l’inizio di un percorso che mi ha spinto più fortemente “in the cloud” di quanto non avrei pensato pochi mesi or sono.

“in the cloud” è finito quasi subito l’equivalente di una chiavetta USB “salva-vita” con quelle cose fondamentali che non posso rischiare di perdere. Adesso uso Dropbox. E sono ragionevolmente felice della sua capacità di fare versioni dei file e di essere presente ma silente  (nel senso che non ti accorgi che c’e’ ma funziona – come molti ingegneri che conosco). Vuoi un Dropbox anche tu? Fai click qui.

Un filo prima, avevo trasferito in the cloud il mio blocco degli appunti.

Lo strumento che uso si chiama Evernote. Archivio su Evernote qualsiasi cosa sia archiviabile elettronicamente.  Lo trovo imbattibile per georeferenziare ristoranti (utilizzando un suo cugino russo: nevermap che ne fa un mash-up), archiviare ricette, minute di incontri, fotografie di lavagne usate in riunione. Peraltro fa un OCR delle immagini in modo trasparente….

Ho taggato “GTD” alcune delle note che mi servono a gestire i vari “livelli” del GTD di Allen. E funziona bene.

Infine, ma non ultimo, un gioellino di programmazione Web 2.0: Nirvana che ha soppiantato ThinkingRock nel mio cuore come strumento di pianificazione GTD.

E’ piu’ leggero, potenzialmente più ZenToDone, molto carino graficamente e (come Evernote) gestisce una casella di posta inbound per mandare dal BB spunti, note, cose da fare e amenità simili.

Tutto questo non automatizza il processo decisionale che serve a discernere cosa sia davvero importante fare e cosa no.

Per quello non ci sono particolari soluzioni “in the cloud”.

Ma, tendenzialmente, se una cosa bella da fare rimane troppo tra le cose che sarebbe bello fare un giorno o l’altro, potrebbe essere che non sia troppo importante. O sia troppo complicata. O tutte e due le cose. O nessuna delle due.

E, peraltro, la decisione del titolo non credo sia ineluttabile. Solo sospesa. Prima o poi, giuro, ci riprovo. Forse.

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